TELAI FONTANARI  

Tanti anni fa, quando i supermercati e i negozi di abbigliamento non esistevano, alla Fonte erano le donne che provvedevano a vestire la famiglia, cucendo i vestiti e facendo maglie e calze per tutti. Si tessevano perciò teli per lenzuola, coperte ecc… con un lungo procedimento che spero di ricordare bene, scusandomi se salterò qualche passaggio. Il mese scelto per la tessitura era aprile, quando il freddo cominciava a diventare meno rigido e le giornate più lunghe. ‘Aprile bel tessere e dolce dormire’ recita così una poesia di Pascoli, ma le donne della Fonte dormivano poco. Alle prime luci dell’alba facevano a gara nell’alzarsi per avviare il lavoro, le vie del paese si riempivano del suono dei pettini e dei canti delle tessitrici. Prima di iniziare la tessitura c’era una lunga preparazione. Dopo aver raccolto canapa e lino nei campi, con un anno di anticipo, riuniti in fasci si portavano al macero, un pozzo vicino a San Martino nel quale scorreva l’acqua pura di Monte Cagno. I fasci raccolti rimanevano là immersi per quaranta giorni, ammorbidendosi e ‘spurgandosi’. Poi venivano tolti dal macero e lasciati asciugare al sole, si schiacciavano su un attrezzo di legno chiamato ‘macilla’ e si toglievano le impurità, infine passati sopra un pettine di ferro chiamato ‘scap&cchion&’. La matassa veniva avvolta intorno ad una conocchia e filata col fuso a mano, pur se negli ultimi anni veniva fatto filare a macchina a L’Aquila. Alla fine, fatte le matasse con l’àsp, si metteva il filato in grosse cannelle usando per questo ‘gliu ndruvareglie’. Il lavoro più delicato però era l’orditura. Quasi tutte le donne erano capaci di farlo, ma il lavoro non partiva senza l’OK di zia Lucia, zia Margherita e zia Carolina, che erano considerate le più brave. Finalmente si iniziava a tessere, compito svolto dalle più giovani. Che allegria allora! I ragazzi giravano come mosconi da un telaio all’altro,  lanciando i loro messaggi… altri tempi, c’erano le mamme sempre di vedetta, erano i nostri ‘guardiani’, anche se spesso chiudevano un occhio… Capitava a volte che il telaio si fermasse a causa di qualche sbaglio e la tessitrice di turno non riuscisse più a sistemarlo: c’era il malocchio, si diceva. Entrava in scena allora zia Aurora, che conosceva la formula magica per scacciarlo, rituale segreto e rivelato raramente a qualche persona di sua fiducia solo nella notte di Natale. Ricordo che versava dell’acqua in un piatto e vi faceva cadere delle gocce d’olio sopra. Se l’olio rimaneva intero il malocchio non c’era, se invece si scioglieva c’era il malocchio, che si toglieva tagliando con un coltello l’acqua e recitando silenziosamente delle preghiere particolari, che a noi sembravano magiche. Certe volte il malocchio doveva essere così ‘forte’ che zia Aurora non bastava… e il telaio tornava a funzionare solo se la comare Eleonora o Ines sistemavano lo sbaglio con l’abilità delle mani e l’esperienza di tanti anni. Finito il lavoro di tessitura le tele (o pezzi) venivano bagnate e stese ad asciugare al sole tiepido di maggio, messe a bollire nelle ‘c-ttore’ dove si versava cenere e acqua bollente, il giorno dopo si risciacquavano al fontanile della cona  e si ripetevano più volte queste operazioni finchè i teli diventavano bianchi come la neve. Forse questa era la fase meno pesante e più divertente, meno controllata dai ‘guardiani’ e perciò luogo di incontri fra spasimanti. Le aie dei D’Ascenzo alla Cona e quelle dei Lucantonio alle Salere erano tappezzate di tele bianche che, unite al verde dell’erba, sembravano quadri di Van Gogh. Noi giocavamo e saltavamo come matte, oppure facevamo piccoli lavori di cucito che le nostre mamme ci imponevano senza tante storie. E, tra una bagnata e una risata, le ragazze della Fonte sognavano il Principe Azzurro.

 

(Antonietta D’Ascenzo)