Si stava stretti a
casa di nonna
“Mamma
partiamo proprio domani?
Sì.
Ma io
voglio stare ancora…
Non
si può.”
Così
dicevamo con mamma la sera prima di partire dalla Fonte per tornare a Bologna.
Tutti gli anni. Si arrivava alla fine di luglio quando ancora non c’era ‘tanta
ggente’ (con due ‘g’ si dice alla Fonte) e si ripartiva sempre tra i primi,
prima del 20, sempre tra i primi, uffa.
Vivevamo
in 13 (qualche anno anche in 14, ospitavamo qualche cugina aggiunta…) nella
grande casa di nonna Michelina, un generale con i capelli bianchi raccolti a
chignon che ricordo sempre brontolona e severa, ma che ci mangiava con gli
occhi noi nipoti, quelli che rivedeva per un po’ di giorni tutti gli anni.
Si
stava stretti a casa di nonna, l’intimità per i miei zii e i miei genitori era
un miraggio… ed erano le loro ferie! Ferie trascorse per mamma e le zie a pulire,
a fare la spesa, a cucinare, lavare a mano nella dispensa di zia Enrichetta (la
lavatrice costava troppo per pochi giorni!) e a stirare montagne di panni,
l’unica cosa che volentieri, diventando grande, mi offrivo di fare.
Si
stava stretti a dormire nelle stanze piccole dove le valigie erano sempre
aperte e i miei panni sempre in giro (come adesso) e a noi piccoli (escluso
il maschietto di casa cioè Guido)
toccava rifare letti e sistemare tra gli strilli di mamma e i ‘rizzete’ di
nonna.
Si
stava stretti e si facevano le file nell’unico bagno, mitiche attese pazienti
con una sorta di scansione oraria per le donne mattiniere e… i poltroni, tra i
quali ovviamente i maschi adulti erano inclusi. Un bagno senza doccia né vasca,
ma c’erano le mitiche zie Domenica e zia Giacomina ad aiutarci per un lavaggio
più accurato alla settimana.
Si
stava stretti a mangiare nella grande cucina, quella col secchiaio in pietra e
ceramica, dove non c’era l’acqua calda e ti gelavi le mani. C’era la stufa
bianca, una stufa magica che mi ricordava quella di Hansel e Gretel e che
qualche anno dopo provammo ad accendere io e Guido, col solo risultato di un
fumo pazzesco per tutta la casa. Si mangiava sempre bene a casa nostra, con
varietà di menù italiani, segno di una politica interculturale ante litteram: alla fontanara diretto da
nonna, alla bolognese gestito da mamma, alla teramana con la mitica zia Olga e
alla bresciana con la dolce zia Paola, quella della peperonata speciale. Si
mangiava intorno a due tavoli distinti: quello dei grandi e quello nostro dei piccoli.
C’era chi mangiava troppo e non voleva mai finire e chi invece non aveva mai
fame (quella ero io, magra come un chiodo, allora), con risate e chiacchiere a
tutto gas, senza telefonini o I-POD a romperci l’anima. Ogni tanto ci toccava
andare a prendere il pane in dispensa ed era una costante contrattazione: “Vai
tu che sei più grande! No, vai tu che sei più piccolo!” Ci andava quasi sempre
Nicoletta, Guido mai… chissà perché, forse perché era il maschietto col nome
del nonno???? Poi c’era il rito della
Fontevecchia. Tutti i giorni si doveva andare a prendere l’acqua alla
Fontevecchia ‘perché fa digerire’, ‘perché è fresca’, ‘perché… ci vai e basta’
ma quella era una festa. Si andava tutti insieme coi fiaschi di vetro, che
spesso non tornavano con noi perché qualcuno se ne rompeva per strada e allora
erano guai perché “mo’ senti nonna che dice”.
Tutte
le mattina passavo in rassegna la casa delle zie: zia Domenica, zia Giacomina,
zia Maria e zia Filomena. Era uno spasso: figlia unica a caccia di coccole e di
caramelle. Non mancavano mai né le prime né le seconde ed era una festa ogni
volta, un affetto che mi riempiva di gioia e che mi portavo a Bologna stretto
stretto. Forse è per quello che voglio ancora così bene ai miei cugini; erano
così grandi per me, rompevo spesso sicuramente le scatole (adesso capisco
perché mi chiamavano ‘zanzara’), ma mi hanno sempre accolto e amato come una
sorella e questo è un dono grande, uno dei più grandi che un bambino possa
ricevere, più dei regali, specie per una figlia unica. C’era zio Enolino poi…
che era uno spasso, non so com’è ma vincevo sempre a ‘braccio di ferro’ e non
sapevo mai perché… ingenuità di bambina. Da zio Augusto poi la fettina di
prosciutto, quello buono, per me, Guido, Antonella, Gianna e Nicoletta non
mancava mai, così come la casa sempre aperta e pronta per un ‘vuoi rimanere a
mangiare con noi?’
Ecco, ricordo anche le porte con le chiavi attaccate: erano
per me un mistero, impensabili nel condominio di Bologna, mi chiedevo se non
fosse rischioso e i ladri? Da grande ho letto che non c’era bisogno di chiavi
perché c’era un ‘controllo sociale diffuso’ e poi… che c’era da rubare?
Il tempo, quello sì, ci ha via via rubato la gioia. Se
n’è andata via a pezzetti, insieme alle morti, alcune tragiche ed altre
improvvise, altre più attese ma non per questo meno dolorose. “E’ la vita”,
dice Ottavio quando si ricorda insieme il passato, la sua mitica capigliatura e
la sua macchina, che ci permetteva di andare alle feste dei paesi vicini,
stretti come sardine e con un matto divertente al volante… che spasso.
Si
stava stretti a casa di nonna. Ora in quella casa non ci si può stare più e
quando ci entro sto male. Il terremoto ha fatto il resto. La Fonte sembra
piegata, in ginocchio. Sempre meno persone alla Festa, sempre meno persone in
giro. Restano i ricordi, resta il mito, restano gli affetti, quelli grandi
anche ‘da grandi’ nonostante le distanze e le difficoltà di tutti. Resta il
compito della memoria, dei ricordi nel cuore, dei valori ricevuti da
condividere coi figli, ma non sempre è facile.
Mirella