LA CANDELORA
Agli du’ la Candelora
Agli tre Santa Biagiola.
Agli quattro nicche begli’e
Agli cinque Sant’Agata bella.
Questa filastrocca si recitava alla Fonte ai primi giorni di febbraio per annunciare le feste religiose del mese. La mattina della Candelora, dopo aver ‘governato’ le bestie, noi Fontanari andavamo in chiesa per assistere alla Santa Messa ed alla benedizione delle candele. Queste poi venivano distribuite ai fedeli, i quali le custodivano con devozione, per accenderle in occasione di temporali o altre calamità che potessero danneggiare il raccolto, chiedendo così protezione all’Altissimo affinché allontanasse tutti i pericoli. Il terzo giorno, San Biagio, il rito si ripeteva. Il parroco ungeva con l’olio benedetto la nostra gola chiedendo a Dio di proteggerci dai malanni di stagione. La chiesa era piena di gente, come erano piene le nostre case…; ci fu un periodo in cui alla Fonte si contavano 350 abitanti! C’è da star male a pensare a quanti ne sono rimasti oggi. Il quarto giorno, Nicche Begli’e, era giorno di riposo. Il cinque era la festa di Sant’Agata, patrona di Catania e delle donne. Si racconta che, appena ventenne, subì il martirio a causa delle crudelissime persecuzioni contro i Cristiani ad opera dell’imperatore Decio; a lei furono asportati i seni e per questo si dice sia protettrice delle donne. A Tussillo c’è una chiesa a lei dedicata e le donne della Fonte nel giorno di Sant’Agata si recavano là in pellegrinaggio. Sfidando il tempo rigido scendevano a piedi dalle montagne e, appena giunte, venivano accolte e rifocillate dagli abitanti per poi ritornare a casa prima che facesse buio. Col tempo l’usanza venne abbandonata, ma un anno zia Aurora decise di ristabilirla. Le partecipanti però, a causa del freddo, scarseggiavano e le uniche coraggiose restammo io e zia Aurora. Per due donne sole, una anziana e l’altra giovanissima, l’idea non era consigliabile. Ci venne in aiuto mio fratello Raffaele che, dovendo recarsi all’Aquila, si offrì di accompagnarci a prendere il treno a Villa Sant’Angelo anziché la corriera all’Arifrata. Partimmo di buon mattino, ben coperte, con le gambe avvolte nelle fasce grigioverde, residuo di guerra di mio padre; infatti a quei tempi per noi non esistevano stivali per la neve e le fasce li sostituivano. Giungemmo giusto in tempo per assistere alla funzione religiosa, poi ci recammo in casa di zio Pasquale, l’amico di mio papà ricordato nell’altro racconto sui vignaioli, mentre zia Aurora si recò dai suoi parenti. Dopo pranzo Raffaele proseguì verso l’Aquila, mentre noi restammo diversi giorni ospitate con affetto dai nostri amici. Ritornammo a casa da sole, con un po’ di paura da parte mia e con la segreta speranza di carpire alla zia la formula magica che usava per scacciare il malocchio: ciò naturalmente non accadde e la formula rimase un segreto.
(Antonietta D'Ascenzo)