IL MONDO DEI VINTI...ALLA FONTE

Su RAI TRE, alle ore tredici, va in onda tutti i giorni un bellissimo programma televisivo intitolato ‘Il tempo e la storia’. Ogni giorno viene trattato un argomento diverso che ci ricorda episodi del passato un po’ dimenticati e che invece sarebbe utile ricordare; capiremmo così quello che sta succedendo oggi nel nostro Paese e nel mondo. Certo, scandali e miserie ci sono stati e ci saranno sempre e a pagare sono sempre i soliti cioè i più umili e onesti. L’argomento trattato giorni fa riguardava lo spopolamento e l’abbandono dei paesi di montagna dopo l’ultima guerra mondiale, da parte di montanari e contadini che, stanchi di strappare la terra ai sassi, si trasferirono in città in cerca di una vita migliore. A fine trasmissione il conduttore del programma chiese all’ospite, una professoressa di storia, di segnalare al pubblico un libro che raccontasse quel periodo. Lei consigliò Il mondo dei vinti scritto da Nuto Revelli. Consiglio che ho seguito, leggendolo tutto d’un fiato. La storia di svolge nelle montagne delle Langhe dove l’autore era nato. Attraverso interviste egli riuscì però a far parlare i pochi abitanti ancora vivi e quelli trasferiti in città. Scoprì che, malgrado le loro condizioni fossero migliori in città, i loro cuori erano pieni di nostalgia per i posti dove erano nati, nostalgia che noi fontanari lontani conosciamo bene e che, più passa il tempo, più diventa forte. Dal libro di Revelli vennero fuori storie terribili. Insieme alla miseria c’era anche la guerra a portare via tanti giovani, i quali partivano senza sapere perché e perché lottavano. Tanti modi di vivere simili ai nostri, storie raccontate nelle stalle dove si recavano di sera, storie di streghe e fattucchiere, con i bambini che giocavano con i sassi, un gioco simile alle nostre ‘bricche’ mentre le donne filavano e cucivano. Una cosa però era diversa da noi. Quella miseria, così nera, da noi non esisteva. Le nostre case erano piene di ogni ben di Dio; certo i soldi si vedevano solo se si vendeva qualche animale, ma non ricordo nessuno che abbia patito la fame e nessun genitore era costretto ad affittare i suoi bambini di sette-otto anni, pur di non farli morire di fame: bambini mandati in montagna da soli a fare i pastori solo per un pezzo di pane e un paio di scarpe. A partire dal libro ho iniziato a ricordare i nostri giochi di bambini alla Fonte. Eravamo due gruppi. Il primo era costituito dai D’Ascenzo ed era composto da me, Marisa, Aurora, Angela, Lino, Fernando, Renzo e Franco; a fine anno scolastico ci raggiungeva Vittoria, la nipote di Rosalia, che alla Fonte chiamavamo Rosaliva. Il nostro ritrovo era l’Aia della Cona, ma il più delle volte ci riunivamo alla Ferrania di casa mia. Lì c’era una pianta di noce grandissima sulla quale salivamo per raggiungere i tetti, incuranti del pericolo e delle sassate di Rosaliva, arrabbiata con noi perché le rubavamo i ‘mallenicchie’ cioè le mandorle acerbe. Quel noce fungeva anche da altare e su quell’altare noi celebravamo i nostri sposalizi e… il prete era sempre Franco (futuro comunista convinto!!!). Una volta un’amica di mamma mi aveva regalato un paio di occhiali di plastica: erano il mio tesoro e non li davo a nessuno. Un giorno però, si stava celebrando un matrimonio e Franco disse: ”Siccome i preti portano gli occhiali devo portarli anch’io, altrimenti niente matrimonio.” A malincuore glieli consegnai. Vestito con una camicia da notte di mia sorella, inforcati i miei occhiali, salì sull’albero, ma nella foga oratoria il ramo si ruppe e lui precipitò giù rompendo il mio tesoro. Non vi dico i pianti e il matrimonio e il rinfresco annullati… i nostri biscotti di terra e farina gettati via, in più prendemmo ‘il resto’ dai nostri genitori… Il secondo gruppo era dei Rosa e dei Lucantonio, composto da Franca, Anna Loreta, Arcangelina, Dina e d’estate ci raggiungevano dalla Rocca le figlie del dottor Scoccia. Non ricordo se ci fossero i maschi. Lì dove oggi c’è l’edificio una volta c’era un orto recintato da un alto muro e chiuso da un cancello a chiave A me ricorda ancora adesso il giardino incantato del Gigante egoista, dove era vietato entrare. Tra le tante piante c’era un fico che era la tentazione dei ragazzi, per questo era sempre sorvegliato… chissà poi perché visto che i proprietari mangiavano sempre pochi fichi… Lì vicino si riuniva sempre l’altro gruppo. Spesso ci scambiavamo le visite invitando anche i maschietti a gustare i nostri gustosi biscotti di terra e farina. C’era però Arcangelina a controllare che i maschietti non oltrepassassero i limiti… Arcangelina… cara amica mia, quante volte ti ho fatto arrabbiare. Non ti ascoltavo, non volevo ascoltarti, ed ero sempre in mezzo ai maschi, non accettavo che a loro fossero permesse cose a noi vietate… anche mamma brontolava per questo con me… ma questa è un’altra storia.

(Antonietta D'Ascenzo)