GUERRA
E’ l’una e quaranta ed è notte fonda, il sonno è svanito e non vuol più tornare, i miei incubi al buio come impazziti saranno i padroni fino all’alba lontana; fortuna che un angelo accorre in mio aiuto, è mio padre, che li caccia indietro e riporta il sereno. Mio padre! Mio Dio! Il 5 maggio del 1992 è volato in cielo, sono già vent’anni, la silicosi col passare del tempo ha intasato i suoi polmoni, sempre più fragili, fino a portarlo via, come la maggior parte dei Fontanari, diventati minatori non certo per scelta bensì per mero bisogno. La tosse e il respiro sempre più difficoltoso degli ultimi tempi sono stati i suoi amari compagni, umidi e oscuri come le gallerie e le miniere della sua vita, tristi ed apatici come le bombole di ossigeno vicine al suo letto, noiosi e infiniti come le ore delle sue giornate trascorse guardando la televisione o i vertiginosi cirri che imperterriti solcavano l’azzurro del cielo. Nelle rare occasioni in cui tornava dopo mesi e mesi di assenza, da Sondrio, da Alfedena, dalla Valtellina, da Umignano o da Oleggio, era festa grande nella mia casa; S. Barbara, Patrona dei minatori (e dei vigili del fuoco), riceveva la loro immensa gratitudine il 4 dicembre, le gallerie chiudevano i battenti e non un solo cavatore si sognava d’infangare quel sacro giorno. In quelle brevissime sortite sovente riuscivo a sequestrarlo e ad averlo tutto per me; spesso il discorso verteva sulla guerra. Già, la guerra, ai bambini piacciono i soldati, gli indiani, i carri armati, le battaglie e le gesta eroiche; i bambini non pensano che i fucili e le pistole della vera lotta armata non sono di legno e non portano i piacevoli ricordi della “Tagliata” o degli amati nascondigli nei vicoli della “Fonte”, bensì sofferenza e dolore, al fronte per chi combatte come a casa per chi aspetta. La guerra, gli occhi di mio padre diventavano improvvisamente lucidi e le parole stentavano ad uscire, come macigni da rimuovere, come un fiume in secca che sembra quasi non voglia più scorrere. Ho un unico buon ricordo diceva, l’amicizia con Di Gregorio Egidio, l’amico sincero di tanti anni di prigionia, un fratello cui ricorrere nei momenti difficili, il solo al quale chiedere e promettersi le cresime dei futuri figli nel caso saremmo usciti da quell’inferno. Almeno questo si è avverato, ho ben vive nella mente le nostre visite a Castelvecchio Subequo e le loro a Fonteavignone, i giochi col figlio Angelo e i ricordi che a tavola puntualmente prendevano vita; se chiudo gli occhi sento le voci accorate raccontare il giorno che furono presi prigionieri in Africa dagli inglesi, rivedo lo stupore nei volti quando anziché benzina per i carri armati ricevettero fusti di acqua zuccherata o peggio ancora immagino il sadismo dei loro carcerieri nel gettare con gaudio il pane sotto i cingoli e poi dar loro da mangiare solo scorze di patate e umiliazioni. La guerra, follia pura dicevano; ti costringe a odiare chi nemmeno conosci, ti fa diventare assassino per salvare la propria vita, ti può rendere traditore per un tozzo di pane, calpesta la dignità dell’essere umano ed è portatrice di tristezza e lacrime in ogni dimora, per gl’invasori come per gli occupati.
La seconda guerra mondiale ebbe
inizio il 1° settembre del 1939 con l’invasione della Polonia da parte della
Germania e si rivelò il più grande conflitto armato della storia, costando
all’umanità distruzioni e massacri per un totale di 55 milioni di morti. l’Italia
si schierò al fianco di Hitler e chiamò
alle armi oltre ai tanti uomini validi di quegli anni anche le classi di leva
intorno al 1920, (quei pargoli cioè, nati al termine della prima guerra), i
giovani della rinascita per un futuro migliore e invece precipitati dopo appena
21 anni dalle ultime ostilità, in una pazzia ancora più titanica. Fonteavignone
si svuotò così della sua gioventù che raggiunse i fronti più caldi dell’ampio
conflitto lasciando nello sconforto i genitori ormai anziani per i quali il
tempo si fermò di colpo. Sei anni tetri, per l’Italia e l’Europa intera; la
“Fonte” scarseggiava di notizie riguardanti i suoi soldati al fronte e in ogni
abitazione si pregava per i propri cari, per il marito, per il figlio, per lo
sposo, ed al Signore continuamente si chiedeva la fine delle azioni belliche
affinché tutti potessero tornare ai luoghi nativi onde iniziare una nuova vita
e dimenticare gli orrori vissuti. Le preghiere però erano destinate a durare a
lungo; il fronte ogni giorno annotava nomi di militi, graduati o ufficiali che
non avrebbero visto la prossima alba, gli ospedali da campo erano affollati
all’inverosimile di feriti e tanti militari venivano fatti prigionieri e
deportati lontano a subire fame e prepotenze. Questa è la guerra, sofferenza e
lutto per i vinti ma anche per i vincitori che alla fine delle avversità
faranno i conti dei caduti e dei dispersi , la gloria del trionfo non
restituirà alle famiglie le perdite subite ma ogni focolare porterà quel vuoto
incolmabile (racchiuso tra le cornici e protette da un vetro) sulle pareti e sui
comodini negli anni avvenire insieme alle lacrime inconsolabili delle vedove e delle
madri. In questi tragici scenari la guerra imperterrita continuava a mietere
vittime e a donare mostruosità, quando l’Italia, stanca di tutto fece marcia
indietro e voltò le spalle alla Germania; i tedeschi si sentirono traditi e da
alleati divennero tiranni, occuparono la nostra bella penisola, le città, le
piazze dei nostri paesi, le strade, requisirono gli alloggi e i punti
nevralgici per poterci meglio dominare, ci presero maiali, vacche, pecore,
prosciutti, legumi, lasciando le famiglie nella fame. Il tradimento costò caro
agl’italiani che cercarono di reagire a queste prepotenze ma la Germania emise
una regola terribile: per ogni tedesco ucciso sarebbero stati presi e
sacrificati ben dieci italiani, non importava se colpevoli o innocenti, se
giovani o vecchi. lo stivale si macchiò di sangue, le rappresaglie furono
feroci e incessanti mentre i martiri fiorirono ovunque, in ogni città, in ogni
borgo, da l’Aquila a Filetto, da Onna a Pietranseri. Fonteavignone, piccola
frazione di Rocca di Mezzo era collegata al mondo con una sola strada, stretta
e brecciosa, per questo motivo si rivelò quasi un’isola felice rispetto agli
altri paesi più centrali; i tedeschi alla “Fonte” erano pochi e spesso assenti,
così grazie al suo isolamento, tanta gente dai borghi vicini chiese asilo ai
Fontanari che diedero loro ospitalità e benvenuto. Ma non ci furono solo
rifugiati civili alla “Fonte”ma anche militi stranieri tra i quali un americano
di nome Clentur, un inglese, un cecoslovacco ed un tenente medico sudafricano.
Questi soldati dispersi dai loro battaglioni trovarono tra i nostri monti una
nuova famiglia; gli uomini e le donne Fontanare li accudirono portando loro
cibo e calore umano quasi ad augurarsi che anche i loro figli lontani o
prigionieri potessero vivere nella disgrazia un’analoga accoglienza. I rifugi
dove nascondersi dai teutoni erano numerosi, grotte naturali, spelonche, cave
di sabbia e ricoveri costruiti ad arte erano un po’ ovunque tra le nostre
sperdute valli. L’esule inglese si rifugiava spesso all’aia di Federico
Lucantonio, proprio all’inizio della “Tagliata” ma quando il pericolo era alle
porte anche lui raggiungeva luoghi più protetti e lontani con gli altri fuggiaschi;
le caverne più sicure erano quelle dietro “Pietra Pezzuta”, a “Vallescura”
oppure in località “Cerro” e a volte anche in luoghi ancora più inaccessibili
come “Valle Paoli” (su erti pareti di
roccia dominanti il borgo di Casentino con in bella mostra il celebre Muro
Murato). Nascondere i nemici del terzo Reich era veramente pericoloso, tanto da
rischiare la propria vita e quella degli altri, però questo non scoraggiò la
comunità Fontanara. “Fai del male e pensaci, fai del bene e scordatene”, le
parole che sovente mio padre soleva ripetermi si avverarono in una splendida
giornata di sole, allorché (finita la guerra), il rifugiato inglese tornò a
Fonteavignone per rivedere i luoghi della sua odissea e per ringraziare quel
paese (ai più sconosciuto) che lo aveva nascosto e ospitato cristianamente,
portando loro piccoli pensieri e tutta la sua riconoscenza. Durante
l’occupazione, i germanici non si facevano scrupoli di razzie per i loro
fabbisogni e i Fontanari furono costretti a nascondere lontano dal villaggio
gli animali per la sopravvivenza; vacche, maiali e pecore scampate al
saccheggio presero così la strada delle valli che venivano poi raggiunte dai loro padroni di
nascosto, magari di notte o durante l’assenza dei tiranni. Un giorno D’Ascenzo
Vincenzo (SPEZZAFERRe), celò sotto la giacca un maialino piccolissimo con
l’intenzione di trasferirlo al rifugio di Vallescura che lui e Lucantonio
Eugenio avevano fortificato attorno a un antro profondo, dono di madre natura;
il trascorrere del tempo aveva favorito una rigogliosa vegetazione che lo
rendeva invisibile alla vista dei sporadici passanti. Zio Vincenzo si era appena
congedato dagli alemanni che lo avevano fermato, quando, svoltato l’angolo, l’animale
iniziò a grugnire; lo zio in quell’occasione tirò fuori uno scatto incredibile ,
da puro centometrista, dileguandosi tra i noti vicoli della fanciullezza. Nelle
case, in quel periodo, si scavarono fossi e fiorirono finte pareti per
nascondere grano, salami, prosciutti, salsicce, formaggio ecc., praticamente
dispense invisibili per il fabbisogno delle famiglie; una delle più grandi e
più fornite fu senz’ombra di dubbio
quella di Lucantonio Agapito, che possedendo più terreni, offriva spesso lavoro
ai paesani, ai tempi della mietitura o della raccolta di patate e legumi. Gli
episodi accaduti sotto il dominio tedesco furono tanti, molti tragici, ma anche
qualcuno che a raccontarlo oggi fa sorridere. Uno di questi ebbe diversi
protagonisti iniziando da Rosa Gustavo che una sera girava per il borgo con un
elmetto in testa, zio Carminuccio lo vide e subito sparse l’allarme per tutta
la “Fonte”; Rosa Augusto e D’Ascenzo Marcello, nella foga di mettersi in salvo,
si ritrovarono a camposanto, dove nel buio più completo zio Augusto che era
davanti precipitò nell’ossario. Matteo non vedendo più l’amico e pensando che
l’avessero preso mise ancor più le ali ai piedi, però, prima inciampò nella
tomba del nonno rompendola e poi anziché uscire dalla metà del cancello aperto,
scavalcò quello chiuso, inseguito nell’oscurità dalle grida del compagno che
chiamava aiuto. Nonostante i tragici avvenimenti, la vita continuava il suo
corso e Rosa Vincenzo si recava spesso all’aia dei frati per lavorare la sua
terra, per legna o per andare incontro a qualche familiare che tornava dall’Aquila;
il bivio di Fonteavignone, infatti, era in quella zona e lì sostavano le
corriere della Pacilli. Quella località, chiaramente era nel mirino
dell’aviazione tedesca ed ogni volta che passavano gli aerei il buon uomo
esclamava: “butta cascetta !” ; purtroppo un giorno anziché viveri piovve una
bomba e le schegge impazzite danzarono nell’aria con fischi paurosi. Vincenzo
della maestra (così apostrofato in paese per aver sposato Marchetti Giuseppina
di S. Maria Del Ponte, conosciuta mentre insegnava alle scuole elementari della
“Fonte”) si gettò prontamente a terra, il suo asino purtroppo fu più
sfortunato, ferito a un occhio venne in seguito medicato e premurosamente assistito
dall’ufficiale sudafricano. Durante il giorno quando gli usurpatori erano lontani
o impegnati con il loro comando, i fuggiaschi entravano spesso in paese contraccambiando
alla generosità degli abitanti con la loro abilità, uno di essi infatti era
sarto ed un altro muratore; la stalla di Rosa Daniele fungeva sovente da bottega,
abbandonata di gran carriera appena avvertiti del ritorno nemico. Rosa Severo
fu Giovanni, tornando dalla campagna nei pressi del fondo di Valle Paoli (FUNNe
De MALLIPAVeRe), trovò un soldato inglese ferito e senza forze, il buon Severo
se lo caricò sulle spalle depositandolo all’aia dei Rosa, dove venne
amorevolmente curato prima di essere accompagnato in uno dei ricoveri ed
affidato ai compagni di sventura. Gli invasori si recavano spesso alla cantina
di Della Cagna Rosa (GLIU SPACCIe), dove pretendevano di bere e mangiare; una
volta la povera donna intenta a cuocere le patate per la famiglia, fu costretta
a lasciare per preparare il pasto ai tedeschi e mentre costoro erano intenti a
divorarlo esclamò: “MAGNETe!, MAGNETe!, Ve Le DENGHe CHINDe E CANDe FUSSASTe I
FIGLIe ME, Ve Se FACESSe VELENe!”. Purtroppo, i suoi tre figli, Orazio,
Demetrio e Giuseppe (Peppino), in quel periodo erano prigionieri in terre
lontane. Rosa Silvano aveva a quei tempi sette anni e scorazzava sovente a
zonzo per le vie del borgo, un giorno mentre passava sotto la casa di
Lucantonio Settimio (divenuta il quartier generale dei tedeschi), fu fermato da
uno di essi che gl’ intimò di recarsi alla fontana per prender loro un secchio
di acqua; il ragazzino a malincuore obbedì ma questi non ancora contenti
pretesero che gli accendesse il fuoco e lavasse piatti, gavette e tutto ciò
ch’era sporco. Silvano, alla fine della fatica, ricevette per ricompensa
gallette avariate con dentro insetti in ottima salute e carne in scatola di
pessima qualità. Rosa Ezio (il fratello minore di Silvano e Severo), all’età di
cinque anni anziché nel letto preferiva dormire per terra; la sorella maggiore
Marietta (Maretta), preparò una mattina il caffè nella ciucculattiera per la
famiglia, ma mentre attraversava la cucina inciampò rovesciando il contenuto
sull’orecchio del fanciullo. Disperata per l’accaduto la ragazza volò alla casa
di Rosa Amato (AMATUCCIe) a chiamare la figlia Linda che aveva sempre pronto un
primo pronto soccorso; la giovanetta accorse subito e prestò le prime cure ad
Ezio fasciandogli buona parte della faccia e della testa. La mattina seguente
una quindicina di bambini si radunarono davanti l’abitazione di Lucantonio
Paolina per chiedere notizie dell’amico , nell’esatto momento dell’arrivo dei
tedeschi, fermatosi con l’intento di requisirla e farne il loro comando. Tra
quei fanciulli c’era anche Matteo un po’ più grandicello degli altri che
conosceva qualche parola di tedesco; farfugliando e gesticolando riuscì a
spiegare al comandante che quei ragazzi erano tutti figli di Paolina rimasta
vedova l’anno prima (1942), in più indicò Ezio
gravemente ammalato convincendo miracolosamente gl’invasori a rinunciare a quell’idea. I crucchi per una
volta mostrarono un briciolo d’umanità e abbandonarono il progetto iniziale;
non si spostarono però di molto, appena un isolato dopo requisirono infatti la
dimora di Sabetta fino alla fine del conflitto. Finalmente la guerra finì con
la resa tedesca, ma solo nel teatro europeo, era l’8 maggio del 1945, (nel teatro asiatico invece terminò il
successivo 2 settembre con la resa dell’impero giapponese a seguito dei
bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki); i soldati tedeschi lasciarono finalmente
liberi Fonteavignone e l’Italia, dietro di loro, dolore, macerie e desolazioni.
I nostri soldati provati dagli stenti patiti in quei duri anni fecero ritorno a
casa per riabbracciare i propri cari e le famiglie in trepida attesa. la
felicità tornò tra le mura domestiche e le flebili luci come sentinelle
silenziose restarono accese fino a notte inoltrata; mute testimonianze dei
racconti e degli incubi dei sopravvissuti alla follia dell’uomo. Gli ultimi a
tornare furono i prigionieri lontani e ancora dopo i dispersi, con mezzi di
fortuna, dimagriti a tal punto che i loro cari ebbero fatica a riconoscerli. Diversi
italiani si sposarono nei luoghi del loro servizio e lì misero radici, tanti invece
restarono per sempre in quelle terre straniere con una croce rudimentale a
ricordarli, senza nome, ignoti a chi aveva dato loro pietosa sepoltura e a chi
a casa ancora attende un miracoloso ritorno. Fu così che ovunque, nella nostra
amata Patria, fiorirono a ricordo monumenti, di pietra, di bronzo, di marmo,
con su i nomi dei caduti e dei dispersi, freddi come le notti invernali e impreziositi
dalle macabre date del loro eroico sacrificio. La Madonna dell’Assunta, nostra
venerata Patrona, protesse i Fontanari sotto il Suo manto caritatevole, il
lungo conflitto non ebbe lutti nel nostro paese e tutti assaporarono la gioia
del ritorno. L’unico caduto, ma della prima guerra mondiale (1915-1918), fu “D’Ascenzo
Carmine”, morto sul campo di battaglia nel Carso, proprio quando le ostilità
stavano per finire; la piccola piazza di Fonteavignone è a lui dedicata e la
lapide con il suo nome ricorda alle future generazioni l’olocausto di
quest’eroico milite per la nostra Patria. Un monumento assai semplice è situato
invece sul piazzale dell’ex edificio scolastico dove ogni anno il 4 novembre il
valoroso soldato riceve la corona di alloro e l’inno d’Italia; onori spettanti solo
a coloro che sacrificando la propria vita hanno contribuito a rendere migliore
il futuro del bel Paese e ora riposano nella gloria eterna. Oggi nell’era del
nucleare, una nuova guerra sarebbe catastrofica, il mondo verrebbe cancellato
in un batter di ciglia; abbiamo già tanti morti sulle strade e sul lavoro da
dover piangere ogni giorno. Il mio augurio è che i nostri figli e i figli dei
loro figli non possano mai provare l’orrore, le privazioni, le umiliazioni e le
angosce patite dai nostri avi. Non ricordo chi ha detto questa frase, forse
l’ho solo letta o più semplicemente sentita, ma mi piace in questo contesto
lasciarla di monito a chi leggerà queste brevi memorie, con la speranza che
tanti altri ne verranno a conoscenza: “POVERA
QUELLA TERRA CHE HA BISOGNO D’EROI ! “.
( Pasqualino D’Ascenzo )